Il Principio - The Principle

Ognuno di noi possiede la verità, intraprende quindi il proprio cammino infinito per conoscerla. Questa è l'essenza del sentire, la luce dell'esistenza. Questo è il cammino che in ogni passo del sogno ci porta dal possedere la verità ad essere la verità.
Each of us possesses the truth, then undertakes his endless journey to know the truth. This is the essence of feeling, the light of existence. This is the path that in every step of the dream leads us from having the truth to being the truth.

Friday 23 March 2007

La danza dei demoni

Bambino, ti ascolto. Nascita. Sbattono in fretta le porte larghe, suoni e sussulti nell'aria densa di verde, gas, occhi già stanchi prima di imparare a vedere, un'asta, un tubicino, una bottiglia messa storta, non conosco i nomi per nessuna di queste cose, ma come raccontare se non grazie a ciò che ho imparato dopo? Non ho parole per l'inconscio, solo blande traduzioni delle sensazioni. Suoni nell'aria sporca di verde, sagome, ombre, voci sovrapposte, corrono veloci quanto questo spazio troppo grande per la percezione di me. Sono tutti così lontani. Forse loro sono già solidamente nel mondo. Sono tutti lontani, ma sento l'amore e la preoccupazione, l'ansia, la tensione e la paura. Vorrei sorridergli, ma il gas verde stordisce la percezione del mio involucro per il viaggio. Sto bene. Sorella morte, dolce passaggio, è già ora di andare? Pensavo di avere tante cose da fare. O forse l'avrei pensato. Buio. Luce intensa. Sorella morte mi saluta, vorrei sorridergli, ma sento un dolore troppo intenso prima di scivolare nuovamente nel buio. Luce bianca. Gabbia di plastica. Tubicini, forse mi tengono legati alla madre. Madre, padre, vi percepisco. Credo di vedervi. Vorrei sorridervi, ma i tubicini bastano appena a tenermi qui. Buio. Luce grigia. Sbarre di metallo. Mamma. Mi muovo. Gioco. Piccolo spazio. Giocherò con i pensieri. Sonno. Buio. Luce sporca. Il mio corpo è cresciuto. Dolore. Dolore troppo forte. Urlo. Mi piego su di me. Mi richiudo sul dolore, per proteggerlo, mani sulla pancia, è così prezioso, non fuggire. Urlo, piango, urlo, aiuto, che succede? Convulsione, no, dove va il dolore, corpo dritto, muscoli fulminati dalla scarica, non ho controllo, chiudi, altra fitta, cresce, aiuto, fa male, fa male, fa male, piango, urlo, vorrei urlarmi via da qui, mani sulla pancia, convulsioni, dritto, chiuso, dritto, chiuso, dritto chiuso dritto chiuso, basta! Pausa, rosso, gote calde, donna in bianco, perché piangi? Vorrei sorriderti, ma il dolore ha chiuso il mio viso in una morsa. Si riparte. Urlo, convulsione, mi rigiro, apro, mi rigiro, chiudo, mi rigiro, mi tengono, mi tengono, proteggete il dolore, devo liberarlo prima che muoia in me e vada a nascondersi dentro! Buio. Luce del cielo. Mamma chiama. Anche oggi, no, mamma, ho paura, non voglio questo momento ogni giorno, fa male, fa tanto male, lasciami giocare ancora un po', tremo di paura, non vedi? Coraggio, andiamo. Sguardo basso. Luce finta. Sento la gente parlare e non sono mai nato del tutto. Mi sento leggermente sfumato. Sento le persone parlare. Apprendo in fretta. Imparo a sentire. Sarò sempre segregato? L'ostracizzazione della mia vita terrena sarà la forza dell'umiltà che nascerà in me attendendo di essere chiamata per la rinascita, tra molti anni. Luce illusa. Ridono di me. Imparo a ridere e far ridere prima che ridano di me. Luce di fiamma per le falena. Ama la mia storia, amerò la tua immagine in me, non te, non ti vedo, amerò il tuo corpo, poi andrai. E ancora. Vieni avanti, anche te. E anche te. Sono così buono. Luce puntiforme. Ho perso tutto. Luce scura. Penitenza. Luce vera. Rinascita. Amore. Quante ferite da comprendere, quanti demoni da amare. Luce della fiamma per la danza dei demoni. Luce, luce, luce, quante menzogne, dove, dove, dove, dove ho amato l'oscurità? Dove vuole me, la sua parte, dove è stata nascosta per tutti questi anni? Eccomi, vengo a danzare con voi, euforia baccanale, occhi spalancati, occhi chiusi, occhi socchiusi, rido e urlo, canto e ballo, danza dei demoni, ho voglia di fare l'amore con voi. Buio. Riapro gli occhi, lentamente, sono immobile, senza forze, disteso, pochi secondi e sento fluire energia e coscienza. Mi alzo. Una strada deserta. Vibra, come un immagine di elettrica tensione nell'aria proiettata sul fumo della follia nei sogni, sibila, ronzio, istanti in cui vedo una stanza, troppo brevi. Strada. Edifici messi su due file parallele, ai lati, intorno, pianure verdi, grigie, scure, colline negano l'orizzonte in ogni direzione, un cielo immobile di un sole espanso in orizzontale nella sua luce, velato, un cielo troppo fermo. C'è una vecchia, dondola e ride, ritmicamente, continuamente, la stessa immagine ripetuta, la stessa voce avvizzita e tagliente che sibila dalla bocca sdentata socchiusa sulle gengive, seduta sul suo trono a dondolo, là, sotto un porticato. C'è una foglia che vola nel vento inesistente e si sgretola in fine cenere nera appena tocca terra. La vecchia mi guarda? No. Non credo. Continua a guardare un punto vuoto e ride dondolando. Continuamente. Sento delle risa all'improvviso. Giovani. Cristalline. Sopra la vecchia, edificio in mattoni rossi, nuovi, una piccola finestra quadrata, una croce bianca sul vetro. Ancora una risata divertita, genuina, fanciullesca. La finestra. So bene che nei sogni le scelte derivano dalle sensazioni. Entro. Scale scure, corrimano in legno, ebano. Piuttosto dissonante con lo stile nudo e secco dell'edificio. Salgo. Primo piano. Individuo quella che credo essere la porta della finestra. Sono porte da camere, non porte da ingresso, sono troppo sottili a prima vista. Mi avvicino. Sento la voce di una bambina. Passetti veloci. C'è un'altra voce. Vieni qui, le dice. E' una voce maschile, adulta. E' leggermente roca, molto affascinante, profonda. Di nuovo un ronzio nell'immagine, un formicolare della vista, per un istante vedo in bianco e nero, ma dura un attimo. Osservo la porta, seguendo un istinto. Il pomello della maniglia, tondo, e, sotto, il buco della serratura, tipico di una porta interna di un appartamento, sufficientemente largo per guardare attraverso. Trattengo il respiro per sentire i rumori. Mi chino, lentamente, un ginocchio per terra, l'altro piegato, mani sulle gambe, avvicino l'occhio alla serratura, espiro. Un uomo seduto su una grossa sedia di legno, di quelle che si vedevano molti anni fa, ma che non usa più nessuno, adesso ci sono solo le poltrone. Capelli neri, piuttosto lunghi, ma dal taglio tipicamente maschile, folti e disordinati, proseguono in una barba incolta, qualche pelo grigio, occhi intensi appena riconoscibili nella penombra sopra gli zigomi. Una bocca larga si intravede nella coltre nera, labbra piene dalla linea gentile, e, sopra, un dritto naso greco. Corporatura robusta, senza sembrare grasso, è vestito con una camicia di flanella a quadri rossi e neri, pantaloni scuri e pesanti, stivaletti ai piedi. Avrà una quarantina d'anni, invecchiato dalla barba folta. Vieni qui, ripete. Ecco lei. Vestitino bianco e lungo, baroccamente decorato sugli orli. La vedo di spalle. Lunghi capelli biondo scuro che raggiungono la base della schiena, lisci, molto belli. Corpo minuto su gambe secche. A giudicare dall'altezza avrà una decina d'anni. L'uomo batte una pacca accennata sulle gambe con entrambi le mani. La bimba si avvicina. Lui la prende dai fianchi senza sporgersi troppo, mentre lei alza le braccia, quindi la mette a sedere di fianco sulla gamba destra e sorride. Le gambine di lei penzolano in mezzo alle sue. La guarda in silenzio. Sorride nuovamente, dopo qualche istante. Lei si guarda le piccole mani, espandendo le dita con aria trasognante. L'uomo le tiene la mano destra dietro alla schiena e la guarda. Le accarezza i capelli. Lei continua a guardarsi le mani. Ad un tratto pare che voglia scendere, ma lui le mette la mano sinistra sulla pancia, delicatamente, e, sorridendo, le dice con quella voce profonda: "Che bella pancina. Si sente qualcosa, proprio qui, sai?". Lei resta in silenzio. "Magari aspetti un bambino". La guarda aprendo maggiormente gli occhi, quindi strizzandoli leggermente accompagnando un sorriso che si espande maggiormente. "Sarebbe il caso di controllare, sai? Non è che poi vogliamo che il bambino stia male, no?" Si solleva leggermente, lei capisce e scende, ma senza mai guardarlo. Lui esce dalla mia visuale. La piccola è in piedi, con la testa leggermente abbassata. Intravedo la sua bocca piccola, inespressiva, e gli occhi rivolti verso terra. Ha un viso molto dolce, ma non riesco a capirne l'espressione, ha un che di trasognante nel volto, è come se stesse guardando oltre il pavimento. Passi pesanti. Eccolo, è tornato. Ha un pezzo di carta ingiallita in mano. Passa davanti a lei. Mette il pezzo di carta per terra. "Guarda, qui ci sono i risultati delle ultime analisi, dovresti leggerli". La bimba resta ferma. "Davvero", insiste lui, dolcemente, ma con un pizzico di gravità nella voce, "è per il tuo bene, è importante, sai?". Adesso lei si volta. Si avvicina al pezzo di carta, ma, invece di raccattarlo, si china, si accovaccia per terra e legge, o fa finta di leggere, col ditino segue delle linee scritte che difficilmente si dovrebbero riuscire a vedere sul quel vecchio pezzo di carta ammuffita. Lui si volta. E' dietro di lei. Si inginocchia. Le accarezza la testa con una mano. "Brava", le dice. Scende con la mano giù per la schiena, lentamente. Poi mette entrambi le mani sui fianchi. "Adesso controlliamo come sta il bambino, tu non smettere di leggere, è importante". Le solleva il bacino, così che lei stia a quattro zampe. Lei si adatta alla posizione. L'uomo le prende il vestitino da dietro le ginocchia e lo solleva fin sopra la schiena. Afferra delicatamente le mutandine e le abbassa. Cosa vuole fare con quelle mani? Cosa diavolo vuole fare?! Afferro il pomello della maniglia, ho il cuore in gola, solo adesso mi rendo conto di avere il respiro accelerato e pesante, provo a girarla, ma non si muove, merda, devo aprire questa porta, scuoto la maniglia, freneticamente, ma la porta è chiusa a chiave. Al diavolo, comincio a battere i pugni contro la porta, urlando, "Apri bastardo! Apri questa porta!". Comincio a prenderla a spallate, la mia mente è fissa su quell'immagine, perché non sono intervenuto subito? Ho il cuore che esplode, lo sento nello stomaco. Bam. "Apri, figlio di puttana, apri questa cazzo di porta!", bam, "Ti strappo quelle mani di merda, hai capito? Hai capito, testa di cazzo? Eh? Mi senti, maledetto schifoso?" Bam. "Lasciala in pace!". Bam. Bam. Bam. Sto piangendo. "Lasciala in pace, hai capito?". "Non uccidere l'innocenza..." penso. Bam. Ho gli occhi chiusi, il corpo si muove da solo, ormai non mi rendo nemmeno conto di quanto stia sbattendo contro quella porta, sto perdendo coscienza. Bam... Crollo. Buio. Mi risveglio. Lascio rifluire la coscienza. Mi alzo in piedi. Un'esplosione, all'improvviso. Si espande nell'aria, mi copro le orecchie, faccio appena in tempo a voltare lo sguardo alla mia destra e vedo un altro uomo nella mia stessa posizione, distante qualche metro, prima di essere scaraventato in aria da un'onda d'urto. Chiudo gli occhi. Cado a terra, perdo conoscenza. Mi risveglio. Ho le orecchie che mi fischiano. Mi sento indolenzito, ma riesco a muovermi. Una mano afferra la mia. L'uomo di prima, mi aiuta a rialzarmi. "Tutto bene?" mi chiede. "Dove sono?". "Hmmm, non ricordi? Piattaforma due, dovresti saperlo". Mi guarda con aria interrogativa. "Sei sicuro di sentirti bene?". "Mi fischiano le orecchie". "Ci credo!" risponde e ride. "Ce la siamo vista brutta, ma siamo ancora interi!", dice sorridendo. Volta la testa al cielo e urla, mostrando entrambi i diti medi sulle braccia alzate, "Alla faccia vostra, bastardi, ci vuole ben altro per ammazzarci!". Si volta nuovamente verso di me. "Bene, adesso vediamo di andarcene da qui". Mi osserva, come aspettando che faccia qualcosa. Lo guardo. E' un ragazzo sulla trentina, viso pulito, occhi vivi, di bella presenza, magro e piuttosto alto, vestito con quella che sembra una tuta da meccanico grigio blu. Mi guardo in giro. Macerie ovunque, cemento armato ferito e distrutto. Fumo e fiamme in lontananza, non riesco a vedere l'orizzonte. Ciò che resta di una città, o qualcosa di simile a giudicare dalle rovine, molte delle quali sembrano più ciò che resta di vecchie fabbriche piuttosto che di edifici abitabili. "Ehi, tutto bene?". Mi volto. "Si, credo di si. Dove siamo?". "Te l'ho detto, piattaforma due. Devi aver preso una bella botta per non ricordarlo". "Che posto è questo, cosa sta succedendo qui?". "Proprio non ricordi nulla eh? La sirena, noi due che fuggiamo, la gente in preda al panico?". Scuoto la testa con un espressione che lascia intendere di no e che me ne rattristo, ma non posso farci molto. "Senti, non ho tempo di spiegare, adesso dobbiamo andare". Mi guarda esortandomi con un cenno della testa e comincia a camminare in mezzo alle macerie polverose. Lo seguo, frastornato. L'aria è calda e pesante ed io non ho voglia di guardarmi in giro. Provo uno strano senso di rassegnazione e confusione pacata. "Ehi, coraggio, fatti forza amico mio, dobbiamo raggiungere il bordo della piattaforma e andarcene da qui". "Non so nulla. Non so dove sono e non sono sicuro di sapere chi sono, né so cosa stia accadendo, chi sei tu e da cosa staremmo fuggendo, cos'era quell'esplosione, chi avrebbe cercato di ucciderci e dove veramente siamo diretti". "Pare davvero che dovrò rinfrescarti la memoria", ma il suo racconto viene interrotto dallo stupore sul mio viso. Un piccola visione poco lontana da me, una macchia d'azzurro che si muove. Mi avvicino cautamente mentre i miei occhi mettono a fuoco. E' una bambina, accovacciata nel suo vestitino azzurro, gioca in mezzo alla polvere con un sasso, disegnando qualcosa per terra. "Piccola, scusami...". Si volta. Un viso dolcissimo immerso in abbondanti riccioli biondi, occhi blu dall'iride immensa ed una piccola bocca che pare quella di una raffinata bambola di porcellana. "Ciao piccola. Che ci fai qui?". Sorride, ma non risponde. Si alza, si avvicina a me, mi abbraccia la vita. Avrà si e no sei anni. Le accarezzo i capelli sporchi di polvere densa. Mi guarda, le sorrido. "La mamma è stata portata via dagli uomini vestiti di blu", dice imbronciata con occhi tristi. "Garanti dell'ordine, maledetti bastardi, non hanno rispetto per i sentimenti!", dice il mio sconosciuto compagno. "Devono averla portata sull'isola centrale. E' là che dobbiamo andare anche noi, che ci piaccia o meno è l'unico posto sicuro della zona. Dobbiamo raggiungere il bordo della piattaforma. Andiamo, la bambina può venire con noi". "Adesso andiamo dalla mamma, hai sentito? Su piccola, non avere paura". Mi chino e le faccio capire che la voglio portare sulle spalle, lei capisce e monta su. Nonostante lo stordimento riesco ad equilibrarmi, le tengo le caviglie e proseguo la camminata tra le macerie. "Quanto manca al bordo?" chiedo. "Un paio di chilometri buoni, ma vedrai che se manteniamo il passo non ci metteremo molto". Resto in silenzio e cammino. E' come se non mi interessasse capire cosa stia accadendo adesso. Ho questa piccola sulle spalle e provo un profondo senso di protettività nei suoi confronti, quello che credo essere una specie di istinto paterno. Camminiamo in silenzio, passo dopo passo. Il tempo scorre senza ritmi precisi, scivolando sotto i miei piedi. "Ecco il bordo". Cerco di mettere a fuoco. La strada si interrompe. Oltre, sotto di noi, una distesa incandescente di lava e getti di fuoco che si perde dentro ad un fondale di nebbia biancastra. Spalanco lo sguardo, attonito e stupito. "Passeranno a prenderci prima o poi, non lasceranno che quelli ci ammazzino. State tranquilli", dice il ragazzo che ci ha guidati fino a quel punto. "Voglio scendere", dice sommessamente la bambina, mi inginocchio con la schiena in avanti, lentamente, e lei scende. Si avvicina al bordo e si affaccia. Mi avvicino a lei. "Dobbiamo aspettare che si raffreddi, così potranno camminarci sopra", dice la piccola, con voce tranquilla. "E tu come fai a saperlo?", le chiedo sorridendo. Si volta. Provo un senso di orrore. I suoi occhi sono completamente rossi e dei rivoli vermigli le tracciano il viso. "Non lo capisci ancora? Sono stata io a fare tutto questo!". Cade all'indietro e scompare dalla mia vista. Corro verso il bordo, ma ad ogni passo perdo sensibilità nelle gambe, crollo a terra, sto perdendo coscienza. Buio. Riapro lentamente gli occhi. Sento bruciare la guancia destra. E' quasi una sensazione piacevole a modo suo. Neve. Sono disteso nella neve. Mi sollevo lentamente, sentendo rifluire forza nelle mie membra e più acquisisco coscienza più comincio a percepire il freddo. Mi guardo attorno. Alberi spogli intorno a me. Percepisco la sensazione dei colori notturni, eppure c'è troppa luce, la neve risplende. Guardo in alto. Blu intenso, polvere di stelle nel cielo ed una luna troppo grande per sembrare vera, argentea, tanto luminosa da far risplendere la bianca coltre in cui affondano i tronchi intorno a me. Un corridoio d'alberi in fila, forse una strada coperta dalla neve. Mi incammino nella direzione della quale intravedo la fine, l'apertura in lontanaza, forse una radura. Il freddo pungente non è affatto sgradevole ed il paesaggio ispira oniriche sensazioni di rara poesia per l'intensità dei suoi colori dipinti nel silenzio di una notte senza vento. Lascio orme profonde nella neve abbondante. Fine della strada. Due case dai tetti spioventi coperti di neve, una di fronte all'altra, identiche, ai lati della strada che prosegue verso colline lontane che mi precludono la vista dell'orizzonte. Porta con porticato e due finestre ai lati per il piano terra, due finestre al primo piano ed una porta finestra centrale che offre accesso ad un piccolo balcone, una soffitta in sotto tetto con una piccola finestrella quadrata nel mezzo. Nella casa sulla mia destra la finestrella della soffitta pare illuminata da un flebile lume. Mi avvicino alla porta, provo ad aprire. Chiusa. Busso e attendo. Nessuna risposta. Busso nuovamente. Nulla. L'altra casa. Il pomello tondo della porta segue il movimento della mia mano e sento la porta sbloccarsi. Apro lentamente, mi affaccio ed entro. Penombra. Un corridoio con varie porte ed un orologio a pendolo. Delle scale sulla sinistra. Scelgo di salire. Primo piano, porte di quelle che credo essere camere. In fondo al corridoio, sul lato, una scala di legno meno pregiata di quella sulla quale sono appena salito. Salgo ancora. Una porta in fondo alla scala, provo ad aprire e scopro che non è chiusa a chiave. Apro lentamente, mi affaccio, entro. Pare una soffitta con roba ammucchiata, ma la penombra mi impedisce di distinguere nitidamente le sagome. La finestrella. Un ombra davanti, c'è qualcuno che guarda fuori, mi blocco. Sto per voltarmi e tornare indietro, ma con la coda dell'occhio vedo l'ombra voltarsi e mi irrigidisco, voltandomi nuovamente verso di lei. "Chi sei?" chiede l'ombra. "Mi scusi, credo di essermi perso nel bosco e sono entrato nella sua casa in cerca di rifugio". "Non è la mia casa, credo". Ha una voce pulita, dolce, giovanile. "Vieni avanti, non ti vedo". Mi avvicino cautamente. E' un ragazzo, non avrà più di una ventina d'anni. Tratti gentili, occhi tristi, i suoi colori si perdono nei colori della notte che filtra dai vetri. "Non so da quanto tempo sono qui", dice. Mi avvicino. Suppongo che dovrei essere io a fare domande, ma resto in silenzio. Si volta. "E' tutta la notte che guardo dalla finestra. C'è quel lume nella finestra della casa davanti, ma non vedo mai passare nessuno. Le orme, là in basso, devono essere tue". "Credo di si", rispondo allungando il collo per vedere oltre le sue spalle senza avvicinarmi troppo a lui. "E' una bella casa", dico. "Si, suppongo di si, ma non ricordo di chi sia". Silenzio. Mi avvicino di qualche passo. "Che ore saranno?", chiedo, guardando dalla finestra quel surreale cielo notturno. "Non lo so, qui non fa mai giorno". Non so che dire. Mi avvicino ancora un po'. Finalmente vedo il suo viso illuminato dalla luna. Vedo i suoi polsi, il suo collo. E' terribile. Mi chiedo in che modo riuscirò a fargli capire che è morto. Buio. Riapro gli occhi, rapidamente. Mi rialzo. I demoni dormono beati intorno al fuoco, ormai molto più basso di prima. Mi fanno tenerezza. Chiudo gli occhi, è tempo di saltare, ma non di risvegliarsi. Eccomi. Ti vedo accanto a me. E' tempo di scendere questa nuova scalinata, non con volti di ghiaccio e alabastro, ma con un sorriso antico. Credo di riuscire a sentire adesso. Ti sorrido. Andiamo, mia compagna.

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